Nel contesto dei diversi cambiamenti che hanno recentemente interessato il mondo dei dispositivi medici, il cambiamento più radicale è sicuramente rappresentato dall’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2017/745. Per questo, altre novità nello scenario regolatorio sono passate almeno parzialmente in secondo piano. È il caso dell’introduzione dello standard UNI EN ISO 10993 (2018) relativo alla biocompatibilità dei dispositivi medici.
Nomi come “Biological Evaluation Plan” (BEP) e “Biological Evaluation Report” (BER) sono diventati improvvisamente comuni. L’impatto iniziale non è stato dei più semplici: eravamo tutti abituati a ragionare in modo molto lineare grazie alla tabella contenuta nella “vecchia” ISO 10993-1, che molto semplicemente, in base alla durata e al tipo di contatto col corpo, determinava quali test di biocompatibilità dovessero essere eseguiti.
Perché cambiare questo approccio così semplice?
Il motivo risiede nella necessità di contestualizzare in modo più preciso la valutazione biologica (ovvero, della biocompatibilità) di un dispositivo medico nel contesto dell’analisi del rischio: utilizzare, anche per la valutazione del rischio associato agli hazard di natura biologica, lo stesso frame concettuale che è alla base dell’analisi del rischio.
In altri termini, l’idea alla base della nuova versione dello standard è quella di chiedersi a priori quali siano le “situazioni pericolose” da un punto di vista di interazione biologica con l’organismo, considerare quale sia la gravità del danno che esse possono causare, la probabilità con cui questo danno possa accadere e minimizzare di seguito il rischio.
Il nuovo approccio del Regolamento
L’approccio è quindi quello già delineato nella norma di riferimento per l’analisi del rischio, lo standard ISO 14971, con l’accortezza che il Regolamento, come faceva la Direttiva, impone la riduzione dei rischi e, di conseguenza, anche dei rischi di natura biologica secondo un approccio AFAP: as far as possible, ovvero, il più possibile, in contrasto con le considerazioni di tipo economico, ad esempio, nel qual caso si seguirebbe un approccio di tipo ALARP, as low as reasonably possible.
Il nuovo standard
“Situazioni pericolose”, a partire dalla progettazione del dispositivo, passando per la sua produzione, e quindi alla logistica del trasporto verso l’utilizzatore, da un punto di vista biologico si identificano in tutto ciò che può condurre a un’interazione negativa del dispositivo con l’organismo.
Per questo, lo standard presuppone la definizione di un Piano di Valutazione Biologica: un insieme di attività che, una volta identificate queste situazioni pericolose, ne misuri il rischio valutando se esso è già intrinsecamente ridotto oppure può essere passibile di ulteriore riduzione.
Nel contesto di questa attività, risulta importante una figura prima meno nota nel mondo dei dispositivi medici, ovvero il tossicologo. Lo specialista che, sulla base della valutazione dei materiali che compongono e/o vengono a contatto col dispositivo (ad esempio, i materiali di packaging) e della modalità con cui lo stesso è prodotto, può condurre una valutazione iniziale dell’intrinseca esistenza di situazioni potenzialmente pericolose e suggerire o meno la necessità di eseguire dei test di biocompatibilità sul dispositivo finito. Il test diviene una vera e propria misura di riduzione del rischio, fino a giungere alla verifica dell’intrinseca inesistenza della situazione pericolosa inizialmente paventata. In questo contesto, il fabbricante potrà trovarsi in situazioni diverse rispetto alle prescrizioni dello standard precedente: vi saranno casi in cui la valutazione del rischio porterà all’identificazione della necessità di eseguire più prove di quelle che sarebbero conseguite dall’applicazione dello standard precedente, ma vi saranno anche casi in cui le prove potrebbero risultare ridotte.
La scelta da adottare
In ogni caso il fabbricante si troverà ad aver raggiunto una maggiore consapevolezza rispetto al profilo di rischio biologico del proprio dispositivo e potrà garantirne in modo più solido la sicurezza (sostanzialmente non applicando modalità di valutazione aprioristicamente determinate). Certo è che, in questo mutato scenario – ed è un leit motiv ormai ricorrente – non è possibile improvvisare e, se non sono presenti in azienda le competenze adeguate, ricorrere a un team di esperti esterni con specifiche conoscenze regolatorie, biologiche, tossicologiche e capace di dialogare adeguatamente con i diversi centri di saggio risulta la scelta più ragionevole per ridurre il rischio di intraprendere strade destinate poi a rivelarsi pericolosamente onerose.