Secondo il Regolamento (UE) 2017/745, ogni dispositivo medico deve essere dotato di un UDI, Unique Device Identifier, ossia un codice di identificazione unica del prodotto, che può essere rappresentato anche tramite un codice a barre.
Ma come si è arrivati a creare il codice a barre?
L’idea del barcode nasce negli anni Quaranta su una spiaggia della Florida.
A idearlo sono stati Bernard Silver e Norman Joseph Woodland, ai quali fu richiesto dal direttore di un supermercato di creare una soluzione per marcare i prodotti, in modo tale da permetterne il riconoscimento automatico alle casse e, quindi, velocizzarne il pagamento.
Così, Woodland e Silver cominciarono a disegnare sulla sabbia dei punti e delle linee orizzontali, ispirandosi al codice Morse. Si accorsero che, allungando in verticale i segni, questi si trasformavano in solchi stretti che, accanto ai solchi più larghi originati dalla linee, formavano un particolare disegno, che poteva rappresentare un codice.
Dal disegno sulla sabbia si provò a realizzare un codice a barre a cerchi concentrici, per agevolarne la lettura da tutte le prospettive, ma risultò vincente il sistema lineare, ossia un insieme di segni grafici che può essere letto da più direzioni, senza che l’identificazione del prodotto sia vincolata alla posizione in cui il prodotto stesso si presenta alla cassa.
Il 31 marzo 1971 un gruppo di aziende si accordò per costituire un codice universale di prodotto, quello che oggi si chiama Global Trade Item Number, GTIN.
Il 26 giugno 1974, alle 08.01 del mattino, in un supermercato Marsh a Troy, Ohio, venne scansionato per la prima volta il primo barcode stampato su un pacchetto di gomme da masticare Wrigley.
Nel 1977 venne lanciato anche in Europa il sistema di identificazione standard GS1. 12 Paesi, tra cui l’Italia, fondarono l’organizzazione non profit per gli standard di identificazione, con sede a Bruxelles.
Nel 1978 naque quella che oggi è conosciuta con il nome di GS1 Italy, che riunisce 40.000 imprese di bene di largo consumo.
I codici a barre non sono tutti uguali: nel corso degli anni ne sono stati sviluppati diversi standard. Nei primi anni Settanta, negli Usa, fu introdotto il codice UPC (Universal Product Code) a 12 cifre; poco dopo, in Europa, comparì un sistema analogo, compatibile con l’UPC; lo standard prese il nome di EAN, (European Article Association) dal nome dell’associazione che lo realizzò.
Nel 1990 Europa, Usa e Gran Bretagna riuscirono a trovare un punto di incontro per gestire congiuntamente gli standard mondiali.
Oggi, in Europa e Giappone, si utilizzano soprattutto i codici a barre EAN 13, che contengono, appunto 13 cifre. Le prima tre identificano la nazionalità del produttore, seguite poi dalle altre cifre che fanno riferimento al produttore e alla tipologia di prodotto.
È il check digit a chiudere la sequenza numerica, ossia un codice di controllo in grado di verificare la corretta lettura dei dati.
In Italia, infatti lo standard più utilizzato è l’EAN, codice di riferimento della grande distribuzione. Al secondo posto di trova Farmacode, detto anche codice 32, utilizzato per l’identificazione dei farmaci e dei prodotti venduti in farmacia.
Ad oggi esistono più di 300 varianti di barcode, incluse la versione in 2D, che contengono una quantità maggiore di dati. Ne è un esempio il Codabar, un codice a barre con autoverifica, progettato per essere letto su moduli stampati, utilizzato di frequente nelle biblioteche, nei centri medici e dalle compagnie aeree.
L’evoluzione del barcode è un codice che molti di noi utilizzano nel quotidiano, ossia il QR Code; come il codice a barre contiene informazioni in orizzontale ma, a differenza di questo, ne contiene anche in verticale.
Per questo motivo il QR Code ha la capacità di contenere centinaia di volte il numero di informazioni che contiene il codice a barre.
Il QR Code, molto in voga in questi tempi, in futuro potrebbe essere rimpiazzato da codici basati sulla realtà aumentata.
Stiamo a vedere!