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Tipologie di studio clinico: lo studio retrospettivo

Gli studi clinici di tipo retrospettivo sono un’arma di fondamentale importanza nell’arsenale del clinico ricercatore; da usarsi, tuttavia, con la piena consapevolezza dei vantaggi e dei limiti di questo tipo di studio.

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Paola Gallon

Medical Writing & Scientific Communication Manager

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Studio retrospettivo

Tra le diverse tipologie di studio clinico, un ruolo di rilievo è certamente occupato dagli studi di tipo retrospettivo. Con questo termine si vogliono indicare tutti gli studi in cui la raccolta dei dati clinici avviene dopo che i pazienti siano stati sottoposti a trattamento o terapia, a partire dalle loro cartelle cliniche: per questo motivo, solitamente hanno come obiettivo rispondere ad un quesito clinico che riguarda la terapia di routine, ovvero il gold standard. L’applicazione di un trattamento diverso dal gold standard a scopo di ricerca ha un profilo etico completamente differente e, in linea generale, viene piuttosto indagato con studi di tipo prospettico.

Uno degli scopi principali per cui si eseguono studi retrospettivi è quello di ottenere una prima risposta a quesiti che sorgono con l’esperienza dell’applicazione del trattamento gold standard. Un esempio può essere l’osservazione, mentre la terapia è erogata, che alcune caratteristiche dei pazienti – comunque elegibili – ne modulino il risultato. Il clinico constata quello che gli sembri un pattern che si ripete e decide, quindi, di indagare se questo pattern effettivamente esiste e, se sì, di che reale entità sia. Una prima conferma dell’ipotesi di correlazione tra specifiche caratteristiche del paziente ed esito della terapia può giungere da un’analisi sistematica delle cartelle cliniche dei pazienti: si potrebbero, ad esempio, dividere le cartelle cliniche dei pazienti tra quelli che possiedono le caratteristiche di interesse e quelli che non le possiedono e andare a valutare statisticamente se gli endpoint di interesse (ad esempio, di efficacia della terapia) sono diversi o meno tra i due gruppi.

La conferma dell’ipotesi alla base di uno studio retrospettivo è solitamente il punto di partenza per la conduzione di studi di tipo prospettico. Se il quesito clinico che si desidera indagare è di reale interesse, una prima risposta ottenuta attraverso la conduzione di uno studio retrospettivo può sia concorrere a giustificare eticamente la conduzione di uno studio prospettico, sia orientare la modalità con cui quest’ultimo dovrà essere condotto – in termini di definizione di obiettivi ed endpoint, e quindi di selezione dei pazienti e modalità di trattamento.

Nella progettazione di uno studio retrospettivo è fondamentale comprenderne fin da principio il limite fondamentale: ovvero, l’impossibilità a posteriori di selezionare i pazienti e, quindi, la possibilità che il risultato dello studio (in senso sia specificamente statistico che, di conseguenza, clinico) sia modulato da variabili che lo sperimentatore non può controllare. Modulazione che potrebbe avvenire sia nella direzione di confutare l’ipotesi di test dello studio (ovvero, i risultati del test statistico potrebbero dare come esito che vale l’ipotesi nulla, ovvero che la differenza ipotizzata dal ricercatore non esiste, quando invece la differenza effettivamente c’è ma la variazione di variabili incontrollate non permette di rilevarla), sia nel senso di portare a concludere che l’ipotesi di test dello studio è vera (ovvero, i risultati del test statistico potrebbero dimostrare che la differenza ipotizzata dal ricercatore esiste, ma questa viene attribuita dal ricercatore come dipendente da alcune delle variabili a lui accessibili in cartella clinica, quando – invece – è dovuta in tutto o in parte alla variazione di variabili non controllate e a lui non note).

Quanto appena detto conduce all’osservazione che la progettazione di uno studio clinico di tipo retrospettivo dovrebbe essere eseguita con estrema attenzione, interrogandosi – ad esempio – se esistano delle condizioni che possono far supporre che vi sia una maggiore probabilità di incorrere in interpretazioni sbagliate dei risultati. Un esempio tipico è la qualità delle cartelle cliniche che si sono raccolte – in termini, ad esempio, di accuratezza e completezza – anche in relazione all’effettiva preparazione del personale addetto alla loro compilazione. Meglio, per questa tipologia di studi, essere estremamente rigorosi su quali indicatori di qualità di compilazione includere nella selezione delle cartelle cliniche, e sulle modalità di estrazione dei dati dalle stesse, oltre ai criteri sulle caratteristiche dei pazienti, piuttosto che correre il rischio di giungere a conclusioni errate. Certamente, la conduzione di una power analysis appropriata è fondamentale – col caveat che, ad esempio, sarebbe opportuno stimare l’effect size (ovvero, il rapporto tra variazione attesa nell’endpoint di interesse in relazione alla variabilità dello stesso misurata con un indice di dispersione) sulla base di indici di dispersione ottenuti da studi con adeguata numerosità e di buona qualità. Infine, nella conduzione di uno studio clinico retrospettivo il ricercatore dovrebbe sottoporre i propri risultati ad una analisi critica profonda: soprattutto lasciando “aperta la porta” durante la loro interpretazione alla possibilità che quanto osservato, e dimostrato statisticamente, possa essere frutto dell’azione di variabili diverse da quelle oggetto di osservazione.

Per riassumere, la conduzione di uno studio clinico di tipo retrospettivo – dopo aver ottenuto l’approvazione da parte del Comitato Etico di pertinenza – appare spesso, specialmente per i non addetti ai lavori, ingannevolmente semplice: dopotutto, basta avere accesso ad un numero adeguato di cartelle cliniche e, con un po’ di fatica, estrarne i dati e sottoporli ad analisi statistica. Proprio questa apparente semplicità può portare, invece, ad ottenere risultati di dubbia robustezza concettuale se non, addirittura, fuorvianti. Ne conseguono diverse implicazioni negative: la prima è di natura squisitamente etica, in quanto la ricerca clinica ha sempre e comunque, come base, l’obiettivo di meglio comprendere quale sia il migliore approccio in relazione alla salute del paziente; la seconda – anch’essa con profondi risvolti etici – è che se i risultati di un’analisi retrospettiva sono poi utilizzati per definire protocolli di ricerca prospettici, e tali risultati non sono così robusti come creduto o dichiarato, gli studi successivamente condotti potrebbero essere – in realtà – discutibili da un punto di vista etico o, comunque, rivelarsi un inutile dispendio di denaro e risorse; infine, anche se è il male minore, risultati poco solidi di studi retrospettivi male impostati hanno una minore possibilità di pubblicazione nelle riviste maggiormente blasonate, e purtroppo i rispettivi manoscritti vanno spesso ad alimentare riviste di ridotto valore scientifico, se non addirittura predatorie.

In conclusione, gli studi retrospettivi sono “armi” importanti nell’arsenale del clinico ricercatore: da usarsi con la piena consapevolezza dei loro limiti e vantaggi, eventualmente facendosi affiancare da esperti sia nella fase di progettazione che nella fase di analisi statistica e, infine, di interpretazione critica dei risultati ottenuti.

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Paola Gallon

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