Le fake news fanno (purtroppo) parte delle nostre vite. Le notizie false sulla scienza, tuttavia, non sono un fenomeno nuovo.
Quante volte abbiamo sentito dire:
“I miei amici mi hanno detto che non dovevo prendere questi farmaci tossici – dovrei usare medicine alternative”.
“E se invece dei farmaci tradizionali prendessi la curcuma? Ho una cugina che si cura con la curcuma da decenni e non ha mai avuto nulla” (appunto…).
Uno studio a pubblicato sul Journal of National Cancer Institute (JNCI) ha rivelato che i pazienti oncologici che rifiutavano i trattamenti convenzionali antitumorali (chirurgia, terapia ormonale, radioterapia, chemioterapia) in favore della medicina alternativa avevano una sopravvivenza a cinque anni 2,5 volte più bassa dei pazienti che invece ricorrevano ai trattamenti convenzionali. Questo studio ha fatto notizia in tutto il mondo e ha provocato dibattiti anche molto accesi.
L’importante insegnamento che ci portiamo a casa non consiste nella necessità di riconsiderare le terapie convenzionali in relazioni alle “terapie” alternative; il messaggio che esce potente è un sostanziale fallimento della comunicazione scientifica nel parlare di trattamenti antitumorali.
Lo studio in questione metteva in relazione la disponibilità ad accogliere positivamente cure non convenzionali con il livello di istruzione, l’età e altri parametri, tra i quali l’attività sui social media.
Sul banco degli imputati non finisce, quindi, questa o quella specifica cura alternativa, ma la comunicazione scientifica. Sembra banale, eppure è dove si perde la portata di tanti studi e lavori: la mancanza di trasmissione di messaggi chiave, key finding e informazioni all’audience d’interesse.
Questa è per sua natura differenziata e non è pronta ad accogliere i messaggi secondo i canoni tipici della comunicazione formale tra scienziati. Occorre un messaggio tradotto e mediato che tenga conto del contesto e anche della “psicologia” del destinatario.
Per capirci, riconoscere il cambiamento climatico richiede un cambiamento fondamentale nel comportamento, a volte con un costo per uno stile di vita confortevole.
Quasi intuitivo è rendersi conto che occorre organizzare una comunicazione scientifica che tenga conto della naturale indisponibilità ad accogliere notizie che potrebbero peggiorare le nostre abitudini di vita.
Le cose non cambiano nemmeno quando l’audience, se non proprio scientifica, è quantomeno tecnica. I risultati delle ricerche scientifiche (poco importa se siano condotte in ambito aziendale e relativamente a un farmaco o a un dispositivo medico) devono essere comunicati sempre tenendo in stretta considerazione l’audience alla quale sono destinati e lo scopo per cui vengono comunicati.
In ambito aziendale la comunicazione scientifica può fare la differenza tra il successo o il flop di un medical device immesso sul mercato.
A questo punto la domanda è: chi si deve occupare di comunicazione scientifica?
Sicuramente tutto deve partire dallo scienziato e dal ricercatore, tuttavia il tempo non è infinito e anche le competenze del miglior scienziato conoscono limiti. Ecco, quindi, che alla base della comunicazione scientifica deve esserci un pensiero strategico che definisca i fini della stessa.
Sulla base delle audience e dei risultati desiderati, la soluzione migliore è affidare la comunicazione scientifica a dei professionisti con competenze tra loro molto diverse, ma tutte concorrenti.
Un buon risultato scientifico è, quindi, solo la base necessaria sulla quale costruire una comunicazione scientifica efficace.